Il primo ottobre 1973 l’esercito egiziano lanciò delle manovre militari al confine con Israele, chiamate “Tahrir 41”, attorno al canale di Suez.
L’Egitto comunicò di voler verificare la propria preparazione in caso di attacco israeliano. Il giorno dopo l’esercito siriano comunicò di essersi messo in stato di allarme, per prevenire eventuali attacchi israeliani.
Le autorità israeliane osservavano ovviamente con molta attenzione tutti questi avvenimenti, che però nel tumultuoso quadro politico mediorientale non rappresentavano certo fatti sorprendenti. In effetti, già dall’inizio dell’anno, le fonti di spionaggio israeliane avevano notato segnali inquietanti di preparazione alla guerra da parte degli eserciti arabi. Dopo l’estate, le preoccupazioni israeliane sembrarono però affievolirsi, anche se gli egiziani continuavano ad ammassare truppe sul canale, a costruire strade di accesso e a spianare gli argini del canale per facilitare un attraversamento.
Nei primi giorni di ottobre altri segnali arrivarono al capo dello spionaggio dell’esercito israeliano, generale Eli Zeida: una nota scritta da un giovane analista descriveva in modo dettagliato il rischio di un imminente attacco arabo; uno studio dei servizi segreti americani arrivava alle stesse conclusioni; vennero intercettate comunicazioni che ordinavano agli ufficiali egiziani di interrompere il Ramadan; infine, una flotta di aerei dell’Aeroflot partì da Mosca per rimpatriare in tutta fretta le famiglie dei consulenti militari sovietici da Egitto e Siria.
Eppure, tutti questi segnali vennero ignorati o letti come normali eventi nella cronica situazione di tensione della zona.
Un rapporto dell’intelligence israeliana valutava per esempio basso il rischio di un attacco siriano, ancora il 3 ottobre. E così il 6 ottobre 1973, quando alle due del pomeriggio l’esercito egiziano e siriano attaccarono congiuntamente Israele, quest’ultimo fu colto quasi completamente di sorpresa. Sul fronte del canale di Suez, di fronte a 1’700 carri armati e 2’000 cannoni egiziani, quel pomeriggio d’autunno vi erano 300 carri e una trentina di cannoni israeliani…
Israele se la cavò, e grazie alla formidabile velocità ed efficacia del suo esercito, riuscì in pochi giorni a fermare l’attacco e a sconfiggere ancora una volta gli eserciti arabi, ma la lezione di quella che divenne nota come la guerra dello Yom Kippur fu molto dolorosa.
Due ricercatori americani che hanno studiato a fonde questi eventi scrivono che: “il fallimento dello spionaggio israeliano nel 1973 ci offre due lezioni principali: che pregiudizi e preconcetti spesso vincono sui fatti, in particolare quando tali fatti indicano un futuro poco piacevole; e che le agenzie di spionaggio, anche se ben guidate e organizzate e dotate di sofisticato equipaggiamento, inevitabilmente avranno grosse difficoltà a distinguere le informazioni rilevanti dai dati fuorvianti o irrilevanti.”
Un altro insegnamento è che le persone e le organizzazioni, posti di fronte a segnali deboli e ambigui che indicano sviluppi inaspettati, tendono a “normalizzare” le percezioni, inserendo le nuove informazioni in categorie cognitive familiari (e meglio ancora, rassicuranti): gli ufficiali israeliani normalizzarono i segnali di guerra interpretandoli come normali esercitazioni o approntamenti difensivi.
L’esperienza ci insegna che quasi tutte le grandi crisi sono precedute da una serie di segnali premonitori, che tali segnali di pericolo sono deboli e ambigui e che spesso si perdono in un oceano di dati, informazioni, comunicazioni e quindi non vengono recepiti come tali. In gergo tecnico, potremmo dire che la sfida consiste nel saper distinguere il segnale dal rumore di fondo.
Basti pensare ai segnali di allarme che erano arrivati attraverso diversi canali alle autorità americane prima dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, senza essere debitamente elaborati e compresi.
Dovremo allora imparare a coltivare la cosiddetta visione periferica, ovvero la capacità di osservare il mondo che ci circonda con un’ampia angolazione, cogliendo anche particolari e segnali che appaiono ai margini, o “alla periferia” del nostro campo percettivo. Le esperienze non sono sempre incoraggianti, ma nell’esistenza dei segnali premonitori deboli c’è anche un forte messaggio di speranza: dopo tutto tali segnali esistono.
Anche se nella “nebbia del futuro” non vediamo da lontano arrivare le sorprese, potremmo almeno sentire i loro passi quando le sorprese si avvicinano, se solo fossimo dei bravi ascoltatori. (Nota: abbiamo scritto questo testo nel (lontano) 2018… oggi lo si legge con una prospettiva molto diversa, vero?)
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