In un ormai celebre esperimento, condotto dallo psicologo Salomon Asch parecchi anni fa, i partecipanti dovevano confrontare la lunghezza di alcune linee che venivano mostrate loro. Un esercizio facilissimo, e infatti quasi tutti ci azzeccavano.
Ma poi Asch – eh si, gli psicologi possono essere subdoli – provò una variante dell’esperimento: questa volta tutti i partecipanti fuorché uno erano suoi complici. E i complici, a turno, rispondevano in modo sbagliato. Quando toccava all’unico partecipante “vero”, spesso quest’ultimo sbagliava la risposta, adeguandosi alle risposte date dagli altri.
Questo semplice esperimento è stato ripetuto centinaia di volte, in decine di Paesi: dalla Francia al Kuwait, dallo Zaire al Giappone e sempre si è confermata la marcata tendenza umana alla conformità di gruppo. In un modo o nell’altro, tendiamo a conformarci, ad adeguarci alle opinioni, atteggiamenti, credenze di chi ci sta attorno.
Studi successivi hanno però dimostrato che vi è una notevole differenza fra persone e persone; circa un quarto di esse resiste alla conformità di gruppo e decide in modo autonomo, non si fa condizionare. Ma appunto, sono pochi.
Nel mondo aziendale, questo fenomeno ha un impatto non indifferente. Pensate alle decisioni strategiche prese in un Consiglio di Amministrazione o in una commissione politica, oppure alle decisioni prese dal team che gestisce un progetto. Spesso, chi ha un’idea o un’opinione diversa si adegua alla linea della maggioranza, e ciò rappresenta un pericoloso impoverimento del processo decisionale, in cui invece le opinioni discordanti non estremamente preziose.
Cerchiamo dunque di stimolare e incoraggiare attivamente il dissenso, le opinioni che vanno controcorrente, che mettono in crisi modelli e atteggiamenti troppo radicati e fossilizzati.
Fonte: C.R.Sunstein, Why societies need dissent”, Harvard University Press